Venture capital ed aiuti di Stato per il finanziamento al rischio

La riforma del 2014 della disciplina degli aiuti di Stato ha ampliato notevolmente le possibilità di incentivare gli investimenti nel capitale di rischio delle giovani PMI mediante strumenti di condivisione del rischio tra pubblico e privato (“risk sharing”), oltre ad estendere tale modalità di intervento pubblico a tanti altri settori (investimenti per l’efficienza energetica, lo sviluppo urbano, le imprese culturali, la banda larga ed altre infrastrutture tariffate, etc.).

L’essenza dell’aiuto “per il finanziamento al rischio” è che l’investimento pubblico partecipa ai rischi in una certa misura (es. al 50% della raccolta di un fondo di venture capital), ma può partecipare ai profitti in misura inferiore (es. 40%), rendendo così più appetibile l’investimento da parte dei capitali privati, per effetto del miglioramento del loro rendimento atteso a parità di rischi (“leverage”). L’importante è che tale trattamento preferenziale sui profitti per il capitale privato sia ridotto al minimo, fissandolo all’esito di una procedura competitiva.

Chi scrive ha sviluppato una specifica esperienza operativa per la Regione Lazio (Filas e poi Lazio Innova) nell’applicazione di tali strumenti di condivisione del rischio per gli investimenti nelle giovani PMI non quotate, nel più severo rispetto delle regole europee (utilizzando peraltro risorse dei Fondi Strutturali ed Investimento Europei – SIE e sviluppando la relativa valutazione ex ante):

  1. ha sviluppato e gestito sia fondi pubblici che investono nelle singole PMI insieme ai capitali privati (risultando precursore della cd. “Coinvestment Facility” proposta dalla Commissione UE come strumento finanziario standardizzato per la programmazione 2014-2020), riproposto di recente (INNOVA Venture), che holding fund (FARE Lazio) che investono in una pluralità di fondi privati di venture capital;
  2. ha ottenuto dalla Commissione UE (DG Comp.) una esplicita approvazione (aiuto di Stato N722/09) nel selezionare un team di esperti indipendenti per la gestione dei fondi pubblici (comitato di investimento), tramite procedure di selezione del personale, piuttosto che tramite le più complesse gare di affidamento di servizi ad un intermediario finanziario;
  3. ha progettato una procedura competitiva di selezione dei fondi di venture capital in cui investire fondi SIE utilizzando una apposita esclusione prevista dal codice dei contratti pubblici per la sottoscrizione di strumenti finanziari regolamentati ai sensi del Testo unico sulla Finanza (art.17 (1) (e) del D. Lgs. 50/2016 ed art. 10 (1) (e) della Dir. 2014/24/UE);
  4. ha previsto, in tale procedura, la possibilità di investire in “Fondi Paralleli”, dedicati alle PMI del Lazio aventi le caratteristiche previste dalla disciplina sugli aiuti di Stato e sui fondi SIE, consentendo così che il “Fondo Principale” abbia una rimanente operatività più ampia e dimensioni tali da diversificarne meglio i rischi nonché minimizzarne i costi di gestione;
  5. ha combinato allo strumento condivisione dei rischi (ex art. 21 del Reg. (UE) 651/2014), un contributo a fondo perduto del 50% sui costi di esplorazione (ex art. 24 del medesimo Regolamento Generale sugli aiuti esenti), particolarmente interessante per i fondi di venture capital dedicati alle nuove imprese che svolgono più attività di assistenza ed accelerazione (già più rischiosi e quindi di minore interesse per il capitale privato, e che inoltre richiedono un’maggiore impegno finanziario iniziale).

Una opportunità ancora non sfruttata è che tali investimenti pubblici non si devono considerare interamente deficit e debito pubblico secondo le pertinenti regole europee.

Le transazioni finanziarie effettuate dagli Stati membri, infatti, non sono considerate deficit e debito se rispettose del principio dell’operatore di mercato, condizione dimostrabile in particolare se tali transizioni sono effettuate a parità di condizioni con gli investitori privati (Reg. (UE) N. 549/2013, all. A, p. 1.72, 1.76-1.77 e 20.127).

Se è vero che in presenza di aiuto di Stato tale principio non si può considerare rispettato in assoluto, esso si può tuttavia considerare rispettato per una buona parte. Qualora, ad esempio, si attivasse un Fondo di Fondi che prevede 1.000 mln. di raccolta, di cui 500 mln. pubblici e 500 mln. privati e la procedura competitiva facesse emergere che per attrarre il capitale privato bisogna riconoscergli il 60% dei profitti (di spettanza dei 1.000 mln.), non vi è alcun dubbio che per 400 milioni l’investitore pubblico sta operando perfettamente a parità di condizioni con gli investitori privati. L’importo di 400 mln. non va pertanto contabilizzato quale deficit o debito pubblico, ma solo i 100 mln. “asimmetrici” peraltro in più anni, via via che la raccolta viene effettivamente investita nelle imprese ed il sottoscrittore pubblico versa effettivamente il cash.

Una ulteriore opportunità e che la quota di investimento nelle PMI sostenuta dagli investitori privati (a qualsiasi livello) può essere considerata come spesa ammissibile ai rimborsi dei fondi SIE, come fanno altri Stati membri tra cui il Regno Unito in particolare. L’Italia, ove volesse, potrebbe sostituire con la spesa degli investitori privati una parte del obbligatorio e crescente cofinanziamento nazionale dei fondi SIE, liberando dai vincoli europei risorse finanziarie dei propri bilanci pubblici.

Rimane il cruccio di non essere riuscito a convincere gli azzeccagarbugli nostrani che l’investimento dei fondi di venture capital nelle imprese non è un “finanziamento pubblico”, perché già oggetto di una procedura competitiva a monte, e pertanto non si applicano le relative cautele formali (antimafia, DURC, ecc.). I fondi di venture capital, d’altra parte, sono già soggetti alle regole di vigilanza sugli intermediari finanziari e soprattutto alla pressione degli investitori che, con ben più efficacia di quella dei formalismi amministrativi, assicurano che gli investimenti a lungo termine nelle imprese non siano “sporcati” da situazioni che li rendano invendibili.

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