L’iniziativa del ministro Calenda di promuovere un incontro istituzionale sullo sviluppo economico della capitale di Italia appare lodevole anzitutto perché si muove da dati oggettivi, come inusuale nel nostro bel paese. L’iniziale accoglienza di tale iniziativa da parte del sindaco Raggi è stata quanto meno freddina e speriamo che i tatticismi vengano presto accantonati a favore della sana esigenza di mettere “le cose” al centro della discussione politica e civile, a cui tanto si deve il successo del movimento 5 stelle.
Che Roma sia una capitale incapace di fare da traino alla crescita economica del paese, a differenza delle altre capitali europee, è una “cosa” che dovrebbe essere al centro delle preoccupazioni dei romani ma appassionare anche l’opinione pubblica nazionale se non europea. Si tratta peraltro di una incapacità ormai strutturale e perlomeno decennale, che quindi non dovrebbe essere strumentalizzata per addossare responsabilità a questa o quella parte politica che tutte hanno governato o governano Roma, ma produrre un dibattito concreto, fecondo e rivolto al futuro.
L’Italia è sempre più divisa in due, con un nord sempre più occidentale nella sua capacità di competere nelle dinamiche dell’economia globale ed un sud che nonostante alcune lodevoli eccezioni è sempre più “Grecia”, con la maggioranza della popolazione che dipende dalle risorse pubbliche (che mi piace chiamare la cassa comune), spesso con finalità assistenziali. Mezzo secolo di interventi “strutturali”, italiani ed europei, non hanno ridotto neppure di un decimale il cd. “divario di sviluppo”.
Se Roma, capitale di Italia, sprofonderà in una cultura ed in una economia assistenziale o saprà sfruttare la sua inevitabile centralità per abbracciare una cultura del merito e farsi largo in una economia della concorrenza, è una questione nazionale e, se non altro per i risvolti simbolici e reputazionali, internazionale.
Certo Roma è una capitale anomala, non ospita la borsa nazionale, non ha nemmeno un politecnico e non ha mai avuto la leadership industriale ed economica nel paese. I romani, inoltre, sono antiretorici per assuefazione, nessuna altra città è capitale da oltre duemila anni ne duplice capitale.
Servirebbe una presa di coscienza collettiva, l’assistenzialismo è giunto al termine, come si dice a Roma: non c’è più trippa per gatti! In fondo anche il fenomeno di “mafia capitale” può essere letto come una forma estrema di assistenzialismo esteso agli appalti, dopo che si erano esaurite le sacche dei posti pubblici e di quelli nelle società partecipate. Servirebbe anzitutto comprendere che Roma ha una quota di economia che dipende dal pubblico ed è sottratta alla concorrenza, che è probabilmente seconda nel mondo solo al Nord Corea, non certo un modello vincente per la sua popolazione. Anche nell’audiovisivo e nel settore degli spettacoli e dei beni culturali, i tentacoli pubblici (RAI, Zetema, etc.) rischiano di svilire il merito e di dilapidare un vantaggio competitivo evidente a livello mondiale.
Ci si lamenta che il bilancio di Roma Capitale riesce a malapena a coprire i costi di funzionamento impedendo nuovi investimenti infrastrutturali ma non ci si chiede se questi costi di funzionamento sono allineati a quelli delle altre grandi capitali europee, io ritengo che siano superiori per effetto di decenni di assistenzialismo e secoli di privilegi (sia pure con l’originale formula della rotazione tra le famiglie che esprimevano il Papa).
Come romano, italiano ed europeo non posso quindi che sperare che l’iniziativa del ministro Calenda sia affrontata da tutte le istituzioni evitando di partorire l’ennesima lista della spesa, ma individuando anzitutto quelle funzioni per lo sviluppo che caratterizzano le grandi capitali e che sono un valore aggiunto per i suoi abitanti ma allo stesso tempo per tutto il paese. Stupisce, ad esempio, l’assenza di Roma dalla gara scatenatasi per ospitare le agenzie europee che dovranno traslocare dal Regno Unito.
Ritengo ci siano le condizioni affinché Roma possa ospitare almeno un paio di Politecnici (scienze della vita, tecnologie per i beni culturali), intesi come Enti di Ricerca dedicati a promuovere l’innovazione nelle imprese sul modello delle Fraunhofer tedesche, e si potrebbe scoprire che Università straniere sarebbero ben disponibili ad investire se l’Italia offrisse un quadro di regole chiaro, magari qualche bel complesso immobiliare abbandonato (Forlanini) ma forse non necessariamente nuova finanza pubblica (Università straniere, peraltro, della cui notevole presenza giovano per ora solo affittacamere e venditori di bevande alcoliche).
Si potrebbero immaginare strutture dedicate alle start up, ai nuovi lavori creativi, alla open innovation, etc. Sono strutture che sorgono spontanee in tutta Europa laddove l’iniziativa privata trova un’ambiente favorevole. Si potrebbero, infine, immaginare nuove borse dei diritti d’autore audiovisivi, dei brevetti, delle partecipazioni in start-up, etc.: i nuovi asset immateriali che sempre più fanno la differenza nella concorrenza globale.
Si potrebbe scoprire, ragionando prima sulle funzioni e solo dopo sulle condizioni materiali necessarie per svolgerle, che non serve nuova finanza pubblica, che sia sufficiente quella oggi mal spesa o che ne serva molto poca.
Amazon per selezionare dove aprire il sua secondo quartiere generale USA ha pubblicato un bando in cui chiede alla città che condizioni sono disposte ad offrirle! Potrebbe Roma nello stesso modo chiedere quali iniziative private capaci di assolvere funzioni da capitale, sarebbero disponibili a localizzarsi a Roma ed a che condizioni? Un sano e trasparente confronto con il mercato eviterebbe, peraltro di sperperare denaro pubblico in infrastrutture per lo sviluppo che in verità hanno sviluppato solo le tasche di qualche costruttore (es. nuova Fiera di Roma).
Come romano, italiano ed europeo spero che l’iniziativa del ministro Calenda stimoli un ampio e sano dibattito pubblico, diventando così una iniziativa di tutti e l’occasione per trasformare Roma da capitale dei privilegi a capitale delle opportunità. Trasformazione che non si può più rimandare alle calende greche, come ben sanno sempre più i nostri giovani che le opportunità le vanno a cercare nelle altre capitali europee (non ad Atene, però).